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La meditazione nel vuoto

Per comprendere a fondo l’arte di dhyana

Un raro brano di Osho apparso su Osho Times n. 306

 

Osho


 

La domanda più importante che l’uomo abbia mai incontrato è “Cos’è la meditazione?”. Il termine “meditazione” non è così carico di significato come il termine sanscrito originale dhyana.

“Meditazione” ha una connotazione sbagliata. Nel momento in cui dici “meditazione”, sorge immediatamente l’idea “Su cosa?”. La meditazione, nel senso comune del termine, è sempre su qualche oggetto. Ma nel senso sanscrito della parola dhyana, non esiste alcun oggetto in quanto tale; al contrario, dhyana è essere assolutamente privi di oggetto, essere completamente vuoti di ogni contenuto.

Per questa ragione, quando il messaggio del Buddha raggiunse la Cina, la parola non fu tradotta, perché non esisteva un equivalente nemmeno nella lingua cinese. E la lingua cinese è molto più ricca di qualsiasi altra lingua del mondo. Eppure non esisteva una parola che potesse essere definita sinonimo di dhyana, per una semplice ragione: dhyana non è mai stata praticata da nessun’altra parte, tranne che in questo paese. Questo paese ha dato un solo contributo al mondo: l’arte di dhyana. E quel contributo è sufficiente, più che sufficiente.

Tutta la scienza potrebbe essere messa da parte e tuttavia non avrebbe più peso della singola parola dhyana. Tutta la conoscenza del mondo potrebbe essere messa da parte, ma la parola dhyana avrebbe un peso ancora maggiore. Ha un significato infinito, è una visione totalmente nuova della coscienza: una coscienza senza contenuto, una coscienza senza alcun pensiero, desiderio; un oceano senza increspature, senza onde, assolutamente silenzioso e immobile, che riflette il cielo intero con tutte le stelle. Questo è dhyana.

In Cina il termine non fu tradotto, ma quando trascrivi una parola da una lingua a un’altra, anche se non la traduci, cambia colore e forma. È naturale, è successo molte volte.

Ad esempio, la parola India è semplicemente una pronuncia diversa di Sindu, il grande fiume che ora attraversa il Pakistan. Quando i Persiani attraversarono quel fiume per la prima volta lo pronunciarono Indu e non Sindu. Da Indu diventò Indù e da Indù diventò India. Poi attraversò qualche altro gruppo linguistico che lo pronunciò non Sindu ma Hindu; e da Hindu a Hindustan. Ma nascono tutti dal nome Sindu. Adesso appare così distante che Hindu e India sembrano non essere affatto imparentati.

Durante la stesura della Costituzione indiana si discusse molto su come chiamare questo paese: India o Hindustan? Ci fu una grande polemica sulla parola! Perché entrambi derivano dalla stessa parola, il nome del grande fiume che oggi attraversa il Pakistan, il Sindu. Viaggiando in una direzione diventò Hindu e Hindustan, viaggiando in un’altra diventò Indù e India.

Lo stesso successe con dhyana. Buddha non ha mai parlato in sanscrito, era una delle sue originalità. In India il sanscrito è sempre stata la lingua dei preti, dei colti, dei sofisticati. Buddha fu il primo a operare un cambiamento radicale: iniziò a parlare nella lingua che parlava la gente.

Il sanscrito non è mai stato una lingua popolare, è sempre stato la lingua degli strati più alti della società.

E l’hanno custodito con grande cura, affinché non cadesse mai nelle mani della gente comune. È stata una delle strategie di tutti i preti di tutto il mondo: la lingua che usavano non doveva essere compresa dalla gente comune, perché se lo fosse stata sarebbero stati smascherati, perché quello che continuano a dire è semplice, molto comune, ma in una lingua che nessuno capisce sembra che stiano dicendo qualcosa di eccelso, qualcosa di molto soprannaturale.

Se leggessi i Veda nella tua lingua rimarresti sorpreso: non c’è molto. Non più dell’1% dei sutra è significativo, il 99% è semplicemente spazzatura. Ma se li ascoltate recitati in sanscrito rimarrete incantati, resterete semplicemente ipnotizzati. Lo stesso vale per il Corano. Se lo ascolti in arabo ha qualcosa di magico. Tradotto nella tua lingua ti lascia perplesso: suona molto ordinario. I sacerdoti sono sempre stati consapevoli del fatto che le Sacre Scritture possono essere valorizzate, apprezzate, rispettate e venerate solo se non vengono tradotte nella lingua della gente comune.

Anche in questo senso Buddha è uno dei rivoluzionari. Cominciò a parlare nella lingua del popolo. La lingua della gente che circondava il Buddha era il pali; in pali dhyana diventò jhana: un suono più rotondo, più fruibile. Quando una parola viene usata di più, comincia ad avere una sua rotondità, gli spigoli si smussano. È come una pietra nel fiume che scorre: pian piano diventa più rotonda, più soave; acquista una bellezza, raggiunge una forma amabile. Dhyana è una parola grezza, jhana è rotonda, dolce, facile da pronunciare.

Così, quando i messaggeri buddhisti raggiunsero la Cina, jhana diventò ch’an in cinese. E quando quella stessa parola arrivò dalla Cina al Giappone diventò zen. La radice è dhyana.

In inglese (e in italiano, N.d.T.) non esiste una parola equivalente. Si può usare “meditazione”, perché è il termine più prossimo, ma deve essere usato con molta cautela, perché “meditazione” presuppone qualcosa su cui meditare, mentre dhyana significa essere in meditazione, non meditare su qualcosa. Non è in rapporto a un oggetto, è vuoto assoluto: nessun oggetto, nemmeno dio. Una semplice assenza di oggetto, uno specchio che non riflette nulla, uno specchio nella sua natura, così com’è, semplicemente. Quando arrivi a quella semplicità, a quell’innocenza, sei in meditazione.

Non puoi “fare” la meditazione, puoi solo “essere” in meditazione. Non è questione di fare qualcosa, è questione di essere. Non è un atto, ma uno stato.

 

Il discepolo chiese a Bodhidharma, il maestro: Cos’è la meditazione nel vuoto?

 

Probabilmente era perplesso. Molte persone mi chiedono: “Su cosa devo meditare? Su quale forma? Cosa devo visualizzare? Quale mantra devo recitare o quale forma di pensiero devo creare nella mia mente, in modo da potermi concentrare su di essa?”.

Mi fanno domande sulla concentrazione, pensando che siano sulla meditazione. E ci sono migliaia di libri sulla concentrazione, ma tutti usano la parola “meditazione”. È una delle parole più fraintese e l’esperienza è così rara che è difficile capire che una persona sta usando la parola nel senso assolutamente sbagliato.

Mi sono imbattuto in centinaia di libri che continuano a usare la parola “meditazione” come se fosse uno stato di concentrazione più elevato. Non ha nulla a che fare con la concentrazione; anzi, è proprio l’opposto della concentrazione...

 

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Testo di Osho tratto da: The White Lotus #3