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Il corpo del buddha

Satyarthi, esperto bodyworker, racconta delle sessioni fatte a Osho...  

Un articolo apparso su Osho Times n 261

 

Satyarthi al lavoro
 

Nel 1979, vivevo a Pune in pianta stabile oramai da tre anni ed ero uno dei bodyworker più esperti e meglio addestrati dell’ashram. Quindi rimasi molto sorpreso quando un mio caro amico, anche lui bodyworker, che era appena arrivato, fu invitato a lavorare sul corpo di Osho, cosa che a me non era mai stata chiesta.

Non è che non mi sentissi abbastanza amato – avevo donne a ogni angolo – solo che Osho era il nostro Buddha, la persona più importante della mia vita e lavorare sul suo corpo era sempre stato il mio sogno. Quindi, quando l'invito arrivò al mio amico, fui completamente sopraffatto dalla gelosia. 

Poco dopo il lavoro del mio amico sul corpo di Osho si concluse e, non molto tempo dopo, arrivò il mio turno. 

Osho soffriva di un brutto mal di schiena al tempo.

Niente avrebbe potuto entusiasmarmi di più dell’idea di svolgere questo lavoro così intimo per il mio maestro, ma mentre lo aspettavo, nella tranquillità del suo balcone da pranzo, per la nostra prima sessione, iniziai a sentirmi nervoso. Lo avevo desiderato così tanto, ma nel momento in cui si stava realizzando, mi sentivo impaurito e insicuro.

Tuttavia, non appena Osho arrivò, con Vivek, fu così gentile e amorevole con me, che immediatamente mi fece rilassare. Indossava solo un lungi (pareo da uomo che si indossa ripiegato ai fianchi, N.d.R.), senza ma­glietta, e sotto il lungi portava dei pantaloncini bianchi molto corti.

Mi chiese come stavo e poi, con un sorriso, disse semplicemente: “Non pre­occuparti per me. Fai il tuo lavoro”.

La sessione fu molto dolce, ma allo stesso tempo abbastanza di routine per me. C’era naturalmente un po’ di magia nell’aria, perché sapevo che stavo lavorando sul corpo del mio amato maestro, ma a un altro livello stavo solo facendo il mio lavoro nel modo in cui l’avevo sempre fatto.

Quando andai in profondità, applicando una forte pressione con le mani, mi chiese: “Vuoi che ti dica quando fa male?”.

E io risposi: “Sì, certo, va bene”. 

Poi disse: “Questo è un punto doloroso”. 

Era molto curioso di sapere perché i punti dolorosi erano dov’erano e mi chiese in modo molto pratico, con un interesse quasi scientifico: “Tutti sentono dolore in quel punto?”.

Gli spiegai che le persone hanno i loro punti di dolore in posti diversi.

Mentre stavo lavorando su un punto doloroso nel lato sinistro del suo corpo, mi chiese: “C’è dolore in questo punto a causa del lato destro del mio cervello?”.

Questa domanda mi colpì, perché in realtà non ne avevo idea.

Ebbi la sensazione che mi stesse facendo queste domande, in modo da spingermi a studiare il più possibile. A volte mi suggeriva persino di dire certe cose ai miei studenti, una delle quali era che era necessario lavorare sui punti dove c’era più dolore, perché era lì che la tensione era più forte. Mi spiegò anche che è un mito che i Buddha – gli illuminati – non provano dolore: “Provano dolore come tutti gli altri, solo che non sono identificati con il dolore .”

Il modo in cui Osho si relazionava con il dolore quando andavo in profondità mi stupiva. Non ebbe mai alcuna reazione e il suo respiro non era mai alterato, rimase sempre molto leggero e stabile. Sicuramente provava dolore, ma non opponeva resistenza, come fanno di solito tutti; aveva la capacità di osservare e rimanere distaccato, e questo mi rendeva piuttosto evidente che Osho non era il suo corpo.

Mi chiese anche se c’era qualcosa che poteva fare per migliorare la situazione della sua schiena. Fortunatamente avevo già strutturato per lui una breve serie di esercizi di integrazione funzionale Feldenkrais, nel caso me lo avesse chiesto, così gli dissi: “Se ti va, potrei mostrarti come eseguirli”.

“Esercizi? Non faccio esercizi!” rispose, quasi con disgusto. “Facevo molto esercizio, un tempo, ma ora non più”.

E poi aggiunse: “Falli tu per me!”.

 

 

Ritorno all’equilibrio

Quando tornai a Pune, nel 1987, dopo un periodo in cui insegnai bodywork in Australia, presto mi ritrovai a lavorare regolarmente sul corpo di Osho – come avevo già fatto a Pune One – concentrandomi sulle spalle e la schiena.

A un certo punto, durante una sessione, quando arrivò il momento di girarsi per poter iniziare a lavorare sull’area posteriore, gli chiesi, come sempre, di mettersi sulla pancia. Normalmente lo faceva immediatamente, ma questa volta non si mosse. All’inizio pensai che non mi avesse sentito, quindi lo ripetei più volte. Ma invece di girarsi, continuò a guardarmi dritto negli occhi, totalmente concentrato su di me, ma senza muoversi.

Il medico di Osho, Amrito, era presente e si avvicinò al tavolo per dare un’occhiata. Ma tutto ciò che riuscimmo a fare fu fissarci a vicenda. Poi decisi di prendere in mano la situazione e afferrai le spalle di Osho mentre gli dicevo ancora una volta di voltarsi, e lo girai dolcemente, ma con forza, io stesso. A quel punto, rispondendo alla mia presa, si girò.

In seguito, quando la sessione finì, chiesi ad Amrito: “Cosa è successo?”.

“Non lo so”, rispose. “Non ho mai capito perché, ma a volte fa queste cose”.

Nirvano (precedentemente chiamata Vivek, N.d.R.) era sempre presente mentre lavoravo sul corpo di Osho. Per tutto ciò che riguardava la sua salute – i denti, la schiena – qualunque cosa stesse succedendo, lei e il suo medico, Amrito, erano presenti per tutto il tempo. E alla fine delle sue sessioni con me, facevano tutto il necessario per far tornare comodamente Osho nella sua stanza.

Ma ci fu una volta, dopo che avevo lavorato su Osho per circa un mese, in cui se ne andarono durante la sessione e quando terminai, improvvisamente mi accorsi che non c’erano; non c’era nessuno. Eravamo solo io e lui.

All’inizio restai un po’ perplesso. Ma avevo visto come facevano, quindi sapevo che la prima cosa era porgergli le sue pantofole in posizione, in modo che potesse infilarle. Mi sentivo a disagio nel fare ciò, ma Osho iniziò a parlare del più e del meno, per farmi sentire più rilassato; e poi gli porsi il lungi, che era riposto da qualche parte lì vicino, molto ben ripiegato.

Glielo avevo visto fare a ogni sessione: si avvolgeva il lungi intorno alla parte inferiore del corpo e con incredibile velocità e destrezza, faceva rapidamente scorrere la lunghezza extra del tessuto avanti e indietro per fare delle pieghe, e in men che non si dicesse la parte superiore era infilata nella cintura e il resto cadeva perfettamente a terra. 

Poi lo presi per mano, perché era quello che Nirvano aveva sempre fatto, e dal balcone camminai con lui dall’altra parte della stanza.

Osho aveva parlato spesso del fatto che un uomo risvegliato ha sia l’innocenza di un bambino che la saggezza del vecchio, e mentre camminavo con lui, quel giorno, sentii quel suo essere come un bambino. Era così indifeso che non era possibile per me non desiderare di prendermene cura e aiutarlo. C’era una grande dolcezza in quella sua innocenza.

Una volta arrivati nel piccolo corridoio che portava alla sua stanza, era completamente buio. C’erano un sacco di interruttori della luce nella stanza di Nirvano, ma io non sapevo a cosa corrispondessero, quindi iniziai a premerli tutti. Osho rimase lì in piedi, con le luci che si accendevano e si spegnevano dietro di me, in attesa, osservandomi, fino a quando non riuscii a trovare l’interruttore giusto. Chiaramente nemmeno lui aveva idea di quale fosse l’interruttore: era una cosa che aveva sempre fatto Nirvano!

Quando infine trovai l’interruttore, lo accompagnai alla sua stanza e aprii la porta per farlo entrare. A quel punto stavo per andarmene, ma lui disse: “Aspetta lì!”.

Ritornò un minuto dopo con una bella penna stilografica in oro e diamanti. “Questa è per te!” disse...
 

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