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Tra scienza e misticismo

Il relativismo della realtà 

Un raro brano di Osho apparso su Osho Times n 263

 

Osho



Domanda: Stephen Jay Gould ha detto: “Nella scienza la certezza è irraggiungibile”. Osho, ci sono dei segni che l’uomo contemporaneo stia finalmente diventando maturo?

 

Osho: Ciò che ha detto Stephen Jay Gould è certamente un segno di maturità e alcune persone – pochissime – stanno certamente maturando. È un buon inizio: molte altre persone seguiranno. Venticinque secoli fa, il mistico indiano Mahavira diceva: “Nulla è certo. Non esiste una certezza”. E prima di ogni frase e di ogni affermazione metteva la parola syat. Syat significa “forse”, serve a evitare certezze; altrimenti la mente tende a rendere certe le cose. Per questo – era un linguaggio insolito – i suoi contemporanei erano perplessi.

Se gli chiedevi qualcosa, rispondeva semplicemente “forse”. Ti lasciava nell’incertezza, perché forse non si­gnifica sì e non significa no. Forse significa esattamente PO. La parola “PO” è l’invenzione di un logico contemporaneo, in riferimento alle ricerche scientifiche, che tendono sempre più verso il forse. Ciò che è certo in questo momento diventa incerto nel momento successivo, perché la vita è un flusso, un cambiamento. Tranne il cambiamento, tutto cambia. Non puoi essere certo di niente. I codardi hanno molta paura, perché si aggrappano alle cose, pensano di potersi aggrappare a delle certezze assolute, supreme.

Questo logico ha inventato una parola, perché non esisteva una parola tra il sì e il no. Entrambi danno certezza: uno offre una certezza positiva, l’altro offre una certezza negativa. Così ha inventato la parola “PO”. Persino il suono di “PO” toglie ogni certezza. Inizi a chiederti: “Che cosa vuoi dire? Sì o no?” e lui dice “PO”: né sì né no, oppure sì e no insieme.

La vita è in continuo movimento, in continua evoluzione. È una dialettica tra il sì e il no, tra il positivo e il negativo, tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte.

Mahavira, venticinque secoli fa, già usava la parola syat. A chi gli chiedeva se esiste un dio, rispondeva: “Forse”. Ma è una risposta? Dio esiste o non esiste! Così è la nostra mente, il modo in cui siamo stati allevati. Se chiedi a qualcuno: “Ci sei, nella stanza?” e risponde: “Forse”, che conclusione ne trai?

Mahavira dice che “forse” è più vicino alla realtà, perché magari il corpo dell’uomo si trova nella stanza, o magari no; e la sua mente potrebbe essere a milioni di chilometri di distanza. Come può dire di sì? E la mente? Come può dire di no? E il corpo? Dice “forse”, lascia a te la decisione, che è qualcosa che non può essere limitato a termini positivi o negativi. Entrambi devono essere usati insieme.

 

All’inizio di questo secolo gli scienziati erano molto certi e, anzi, questa era una delle definizioni della scienza: la filosofia è piena di desideri, la religione è semplicemente finzione, la scienza è certezza. Due più due fa sempre quattro. Ma questo succedeva all’inizio di questo secolo e nel secolo precedente la scienza era stata molto fanatica rispetto alla certezza, perché era ancora superficiale, il suo lavoro non era ancora andato in profondità. Ora è andato in profondità, così in profondità che per capirlo è necessario affinare la propria intelligenza.

Bertrand Russell ha scritto uno dei libri più importanti sulla matematica, Principia Mathematica, da cui si capisce quanto sia complessa la questione. Oltre duecento pagine sono dedicate semplicemente a dimostrare che due più due fa davvero quattro. Duecento pagine di un grosso libro che nessuno legge, che è quasi illeggibile, perché è solo per matematici.

Bertrand Russell stesso non sarebbe riuscito a scriverlo da solo, perché non era un matematico, ma era un filosofo che aveva delle idee filosofiche sulla matematica. Quindi ha dovuto lavorare in collaborazione con un matematico, Whitehead, che era anche un filosofo e riusciva a comprendere sia la filosofia che la matematica.

Hanno lavorato insieme per anni per scrivere Principia Mathematica, un libro che nessuno legge. Anni sprecati per due grandi geni. Spreco perché “due più due fa quattro” ha richiesto duecento pagine di intensa argomentazione logica. Ma il libro è stato scritto all’inizio di questo secolo, ora non è più rilevante.

Hanno svolto un grande lavoro per dimostrare semplicemente che due più due fa quattro sotto tutti gli aspetti possibili. Ma ora i nuovi matematici affermano che due più due non fa quattro; a volte fa cinque e a volte fa tre, dipende.

Il loro ragionamento è molto profondo e molto chiaro. Il loro ragionamento è che “due più due fa quattro” è tradizionalmente una verità assolutamente certa, perché è stata dimenticata una cosa: che queste cifre non esistono, sono immaginarie. Due sedie più due sedie è una realtà, ma due più due? Perché non incontri mai delle cifre matematiche. Il signor Uno che va al mercato? Tutta la matematica è immaginaria.

 

La nuova matematica cerca di raggiungere la realtà e qui nasce un problema: nella realtà due cose non sono mai esattamente le stesse.

Come fanno a esistere quattro cose esattamente uguali? Ad esempio, due donne più due donne non può fare quattro, perché tutte e quattro sono uniche. Combinare queste quattro persone uniche significa dare per scontato che a ciascuna sia assegnato un numero e questo non è giusto.

Nella realtà tutto dipende: a volte un uomo può essere uguale a tutto il mondo! Un Socrate, un Buddha, o un Einstein da solo può essere uguale all’intera umanità, o forse di più, perché il resto dell’umanità non ha offerto alcun contributo e questo singolo uomo ha contribuito alla comprensione della materia. Non puoi contarlo come uno, uguale a chiunque altro; non è corretto, non prende in considerazione la qualità.

E allora diventa difficile. Quindi dicono che per l’uso quotidiano al mercato, due più due fa ancora quattro, ma per una percettività straordinaria, due più due può fare cinque, tre, qualsiasi cosa… Tutto dipende. La vecchia matematica è sparita, la vecchia certezza è scomparsa.

 

La geometria euclidea era certa e quella era la sua bellezza. Non c’erano dubbi, le definizioni erano chiare. La distanza più breve tra due punti è una linea retta. Ma è tutto astratto. Se vuoi davvero creare una linea retta, non puoi.

Quindi ora c’è una geometria neo-euclidea che dice che non esistono linee rette, perché puoi tracciare una linea retta qui sul pavimento, ma questo pavimento fa parte di una terra rotonda. Se continui ad allungare la linea retta, da entrambe le estremità, prima o poi arriva un punto in cui diventa un cerchio. Se una linea retta allungata alla fine diventa un cerchio, non era una linea retta, era un arco, la parte di un cerchio; solo che la parte era così piccola e il cerchio era così grande, che cadevi nell’errore della certezza.

Non ci sono linee rette. Tutte le definizioni euclidee sono state smentite. In astratto hanno ragione, ma nella realtà non funzionano; e la scienza moderna sta cercando di andare sempre più vicina alla realtà.

Ed è per questo che dico che si sta avvicinando molto, in molti punti e concordando, senza saperlo, ai mistici, perché anche i mistici hanno sempre cercato di raggiungere il reale, non l’immaginario. Da un percorso diverso si stavano avvicinando al reale. E quando lo hanno raggiunto, sono rimasti in silenzio, perché dire qualcosa non avrebbe funzionato, o hanno detto cose come Mahavira: “Forse è così, forse non è così”, facendo delle affermazioni positive e negative allo stesso tempo, che nell’uso quotidiano appaiono solo confuse.

Mahavira non poteva esercitare la sua influenza su molte persone e la ragione fondamentale era che ci era arrivato venticinque secoli prima del suo tempo. Einstein l’avrebbe capito. Mahavira non era un matematico, ma quello che affermava era essenzialmente lo stesso: la teoria della relatività. È stupido dire che una persona è alta, a meno che non si dica anche in confronto a chi, perché non esiste qualcosa come l’altezza; è solo un termine di confronto. In confronto a un pigmeo quella persona è alta.

C’è un antico proverbio: “Ai cammelli non piace andare in montagna”. Non so cosa ne pensino i cammelli, ma è certo che non stanno in montagna. Stanno nei deserti, dove non ci sono montagne. Ma le persone che hanno inventato il proverbio lo sapevano bene. Ai cammelli non piace andare in montagna, perché quando si avvicinano alle montagne si sentono molto piccoli, hanno un complesso di inferiorità.

Freud l’ha scoperto solo di recente, ma i cammelli lo sapevano sin dall’inizio che è meglio non andare in montagna, perché ti verrà un complesso di inferiorità e poi è molto difficile liberartene. È meglio stare nel deserto dove sei la cosa più alta, più grossa, più grande. Quindi perché non indulgere in un complesso di superiorità? Perché andare inutilmente in montagna?

Tutto ciò che diciamo è relativo e la relatività cambia, perché come vi ho detto, la vita è un flusso.

 

Tratto da: Osho, The Transmission of the Lamp #28 

 

 

Apparso su Osho Times n. 263