Una condivisione apparsa su Osho Times n 259
Ogni anno a luglio, in corrispondenza della celebrazione mondiale, che cadeva sempre intorno a Guru Purnima, il giorno della festa dei maestri, e durava una settimana, Osho si sedeva in satsang per sette giorni davanti a circa 10.000 persone, tra residenti e visitatori, nel gigantesco Rajneesh Mandir, un auditorium delle dimensioni di un hangar per aerei.
La gente arrivava da ogni parte del mondo per questa settimana sacra e il satsang era il momento clou della giornata.
Il festival del 1984 si stava avvicinando rapidamente.
Di recente mi ero trasferita a Lao Tzu House, la residenza di Osho, con il compito di coordinare i lavori di casa. E, visto che ero anche radiologa, per essere a portata di mano nel caso in cui avesse avuto bisogno di una radiografia.
Nel satsang, normalmente, i residenti di Lao Tzu House si sedevano proprio davanti a lui, vicinissimi, e così, dato che a quel punto ero residente anch’io, chiesi a Vivek (l’assistente personale di Osho) se avrei avuto la possibilità di stare in prima fila e vedere Osho da vicino. Fino a quel momento, le spiegai, nonostante vivessi a casa sua, a parte una volta che gli avevo fatto una radiografia, l’avevo visto soltanto in darshan a Pune, o quando passava in macchina al Ranch.
Ero ancora una giovane sannyasin, ma, vivendo in casa, sentivo la sua energia, quindi avrei voluto anche vedere e sentire la sua presenza fisica più da vicino. La mia richiesta era abbastanza innocente, visto che la maggior parte dei residenti della casa aveva un posto in prima fila, ma ciò che Vivek mi propose fu una sorpresa totale.
Il giorno dopo mi disse di fare un pisolino dopo pranzo, poi di fare una doccia e prepararmi a uscire in auto con Osho, seduta al suo fianco!
Ero elettrizzata e mi commosse il fatto che la mia richiesta avesse ricevuto una risposta così generosa.
Era raro che qualcuno che non fosse Vivek andasse in auto con Osho, a parte occasionalmente le due persone che insieme a Vivek si prendevano cura delle varie faccende domestiche.
Quando arrivò il momento di uscire, Vivek mi accompagnò nella stanza di Osho e tutti e tre andammo al portico dov’era parcheggiata l’auto, sul retro della casa. Poi ci fece uscire, chiudendo a chiave il cancello dietro di noi, come faceva tutti i giorni.
Mi avevano detto di non dire a nessuno che mi ero trasferita in casa, quindi i miei amici non avrebbero mai potuto immaginare che lo avrei accompagnato durante la sua gita in auto. E invece eccomi lì, seduta accanto a lui sul sedile anteriore della Rolls Royce, che procedeva lungo il vialetto a passo d’uomo, mentre i sannyasin ai lati della strada suonavano e lo salutavano.
Ricordo di aver visto l’uomo che da lì a poco sarebbe diventato il mio ragazzo, in fila con tutti gli altri: restò letteralmente a bocca aperta nel vedermi lì.
Una volta raggiunta la strada principale, Osho accelerò e mi chiese se mi trovavo bene in casa. Naturalmente gli risposi che ero molto felice e lo ringraziai per l’opportunità. Mentre passavamo a fianco del lago Krishnamurti, dirigendoci verso la piccola città di Antelope, mi chiese se mi piacesse il lago.
Quando gli risposi di sì mi disse: “Quale ti piace di più, Patanjali o Krishnamurti?”.
Erano due laghi molto diversi: Krishnamurti era lungo la strada principale della contea, ribattezzata da Osho “Tao Road”, e relativamente vicino al centro di Rajneeshpuram. Era stato generato da una diga enorme che avevamo costruito noi stessi e attrezzato di passerelle, zattere e moli per poter nuotare, andare in canoa e fare windsurf. L’altro era più piccolo, quasi uno stagno, ed era molto più appartato, lungo una strada costruita da noi, “Mevlana Road”, in direzione di una foresta di pini. Osho una volta ci era andato in barca. Era nato come piscina per nudisti, una zona di balneazione dove tutti, comprese le donne che gestivano il posto, stavano nudi.
“Mi piacciono entrambi” gli dissi. “Dipende dall’umore in cui mi trovo. Mi piace molto stare nella natura, ma mi piace anche poter fare un tuffo veloce”.
La mia impressione era che Osho chiacchierasse con me solo perché entrassi in connessione con lui e mi sentissi a mio agio. Ricordo che ero seduta a scrutare il mio cervello per vedere se c’era qualcosa che avrei dovuto chiedergli urgentemente, perché quando avrei mai avuto un’altra occasione come quella? Ma mi accorsi che non c’era nulla da chiedere. Tutto nella mia testa era sparito e così restai seduta tranquillamente, godendomi il movimento fluido dell’auto e assorbendo l’energia. Osho non disse nulla al mio commento sui laghi e in quel momento il walkie-talkie Motorola che avevo in grembo e che custodivo con molta cura, improvvisamente iniziò a crepitare e parlare.
Vivek mi aveva detto, prima di lasciarci, che come compagna di viaggio di Osho, ero responsabile della sua incolumità e che sarebbe stato mio compito riferirgli eventuali informazioni che fossero arrivate attraverso il Motorola. Ed eccomi lì, con in braccio questa grande scatola nera con l’antenna, un oggetto che non avevo mai visto prima in vita mia e che non avevo la minima idea di come usare! Io e lui stavamo ancora parlando quando iniziò a gracidare e una voce rotta disse: “Un camion è uscito di strada proprio lì”. (I messaggi del Motorola, ho saputo in seguito, sono volutamente brevi). Quindi, anche se Osho aveva certamente udito anche lui quella voce gracchiante che arrivava dalle mie ginocchia, mi girai verso di lui e ripetei: “Stanno dicendo che un camion è uscito di strada proprio qui”.
Una breve pausa e Osho rispose, con una risatina: “L’abbiamo già superato”.
Ero sorpresa. Io non avevo visto nessun camion sulla strada o fuori strada. Mi ero persa a fissare il Motorola che emetteva i suoi suoni sibilanti tra le mie mani. Alla faccia della consapevolezza!
Quando uscimmo dalla strada provinciale ed entrammo in autostrada, Osho si fermò a una piazzola. A quel punto, il mio compito era di scendere dalla macchina e srotolare la piccola bandiera di Rajneeshpuram, decorata con due uccelli, posizionata sul cofano, in modo che, ad alta velocità, sbattesse come le vele di uno yacht col vento in poppa. […] Poi tornai in macchina e, prima che Osho riavviasse il motore, presi dal vano portaoggetti una bottiglia di Perrier e un bicchiere di cristallo pesante e molto pregiato, avvolto in un tovagliolo di lino damascato. La Perrier era l’acqua minerale preferita dagli yuppie americani di alto bordo, in quel periodo. La aprii e versai il contenuto. Osho bevve senza staccare la bocca dall’orlo e mi restituì il bicchiere vuoto, che avvolsi nel tovagliolo e riposi nel vano portaoggetti dalla porta di noce smaltato insieme alla bottiglia vuota.
(Anni dopo, a Pune Due, dopo che Osho lasciò il corpo, tutti ricevemmo in dono piccoli oggetti che gli erano appartenuti e, con mia grande sorpresa, a me toccò proprio quello che mi parve lo stesso bicchiere: un alto e pesante flute di cristallo pregiatissimo).
Procedevamo a tutta velocità lungo la strada quasi vuota. A parte le domande sul mio lago preferito e l’avvertimento sul camion, non ci furono altre parole tra noi.
Vivek mi aveva avvertito che Osho non ci vedeva benissimo e mi aveva raccomandato di dirgli di fermarsi se avesse iniziato ad andare troppo veloce o cercato di sorpassare mentre un’altra macchina arrivava in senso inverso.
Naturalmente non riuscivo nemmeno a concepire di poter dire al mio maestro: “Fermati!” in qualsiasi circostanza.
Ma ero lì, seduta accanto a lui in autostrada, sulla sua famosa auto di lusso in cui, ai 130, tutto quello che si riusciva a sentire era il suono del ticchettio dell’orologio. Osho continuò ad accelerare, addentrandosi senza paura nell’alta velocità.
Mi sembrava che stesse guidando a un livello molto diverso rispetto a me. Era come sintonizzato su una sua zona privata e mosso solo dalle sue intenzioni, che erano, ovviamente... beh, guidare l’auto! Non guidava attraverso gli occhi, ma attingendo informazioni da qualche parte dentro di sé, una dimensione nascosta e fuori dalla mia portata. Faceva esattamente ciò che voleva, totalmente in controllo dell’auto, ma assolutamente incurante delle altre macchine e fiducioso che il suo veicolo sarebbe stato in grado di fondersi col traffico senza alcun bisogno di guardare nello specchietto, o a destra e sinistra. Tallonava le auto che andavano più piano e poi semplicemente le sorpassava, invadendo l’altra corsia! A un tratto, mentre stava per iniziare un sorpasso, vidi una macchina venire verso di noi e mi accorsi che non c’era abbastanza spazio per passare in tempo. Nonostante sapessi di dovergli dire di fermarsi, non riuscii ad aprir bocca: le parole semplicemente non uscivano. Ma gesticolai freneticamente, muovendo la mano verso il basso, indicandogli che avrebbe dovuto rallentare. Osho rispose immediatamente, togliendo il piede dall’acceleratore. Aspettò poi di avere abbastanza spazio e sorpassò.
Pareva che non riuscisse a valutare la distanza tra la sua auto e un altro veicolo in arrivo, che doveva essere ciò a cui si riferiva Vivek. Poi da una strada secondaria arrivammo a un incrocio a T con traffico continuo che arrivava da entrambe le direzioni.
Osho si fermò e aspettò, aspettò, aspettò. All’improvviso compresi che stava aspettando che fossi io a dirgli quando andare. Si girò verso di me ed esclamò energicamente, quasi duramente: “Allora?”.
Lo disse solo una volta, ma fu abbastanza.
Toccava a me dirgli quando attraversare. Mi sentii a disagio per quella responsabilità, ma allo stesso tempo sentii che ero insieme a Osho e nulla avrebbe potuto accadermi. Ero in un regno protetto: con lui al mio fianco, non avremmo certamente avuto un incidente!
Piuttosto nervosamente, aspettai un breve intervallo nella linea del traffico e gli dissi: “Vai!”. E senza guardare a destra o a sinistra, Osho mise il piede sul gas ed entrò in autostrada svoltando a sinistra.
Vengo dalla Germania, dove si guida a destra, come in America, ma a quel punto non avevo ancora preso la patente americana e non mi sentivo affatto sicura sulle autostrade americane. Osho, naturalmente, aveva guidato a sinistra per la maggior parte della sua vita e aveva imparato la “guida all’indiana”, che non si guarda mai alle spalle e raramente a destra o a sinistra. Un modo che è sorprendentemente efficiente a basse velocità, ma spaventosamente pericoloso a quelle alte!
Osho ritornò al Ranch a velocità sostenuta, perché a quell’ora del giorno i sannyasin avevano l’ordine di non interrompere il lavoro per salutarlo. Quando arrivammo al portico parcheggiò l’auto. Io scesi dalla mia parte, poi andai ad aprirgli la portiera e gli offrii la mano per aiutarlo a scendere. Lui ignorò il mio gesto e scese da solo. Quando fummo sulla porta, con lui alla mia sinistra, presi la chiave che mi aveva dato Vivek, ma non riuscii ad aprire! Girai la chiave in entrambi i sensi, poi avanti e indietro, più volte, ma la porta rimase saldamente chiusa.
Quello fu il momento in cui mi sarebbe piaciuto essere inghiottita dalla terra. Riprovai molte volte, ma non ci riuscii e, in silenziosa disperazione, mi girai verso di lui e feci quello che, in quel momento, fu del tutto naturale: gli porsi la chiave. Mi sentivo completamente a mio agio con lui a quel punto. Osho aveva un talento per far sentire le persone a proprio agio... Ogni tensione residua era stata spazzata via e mi sembrò la cosa più normale del mondo chiedergli di provarci lui. Prese la chiave e provò, ma non si aprì. Nemmeno la sua magia illuminata ebbe successo in quell’”Apriti Sesamo” tanto desiderato!
“Vai a dire a Vivek di aprire la porta dall’interno”, disse con il suo solito senso pratico.
“Ma non posso lasciarti solo qui” risposi con un senso di impotenza.
Mi era stato detto che il mio lavoro era – categoricamente – prendermi cura di lui. Quindi, anche se eravamo a circa 80 chilometri dall’estraneo più vicino e c’era la torretta delle guardie armate a tre metri e mezzo di distanza da noi nonché una recinzione a catena che si estendeva per tutto il territorio, io ancora sentivo che non avrei potuto lasciarlo da solo e non protetto.
Devo aggiungere che a quel punto c’erano state diverse minacce alla vita di Osho e per questa ragione non era mai da solo se non nella sua stanza. Quindi, nel mondo parallelo e infinitamente pratico di Osho, io avevo l’importante missione di assicurarmi che non subisse alcun danno, al di là di qualsiasi altra cosa il mio viaggio con lui potesse aver significato per me.
“Non preoccuparti, vai e basta” disse ridacchiando. Al suo comando, corsi in cucina sul retro della casa e una volta spiegato a Vivek cosa stava succedendo, lei corse ad aprire la porta dall’interno. E lui era sparito.
Per molto tempo mi sentii un po’ colpevole di non essere stata capace di riportare a casa il mio maestro. Ma fui lieta di notare, un paio d’anni più tardi, dopo che Osho aveva lasciato gli Stati Uniti e fui incaricata di pulire a fondo la sua casa prima di abbandonarla, che quando un lavorante tentò di entrare, non riuscì nemmeno lui ad aprire la porta. Dovetti sbloccarla dall’interno, proprio come aveva fatto Vivek...
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