l'editoriale

Fermate il mondo che voglio scendere
Con questa frase ci hanno giocato in tanti, da Mafalda a Woody Allen e mi è tornata in mente giorni fa, fermo in coda sulla tangenziale. Una massa di auto su tre colonne che si muoveva a singhiozzo sotto il bollente sole estivo. E non c’era via di scampo. Ero in corsia centrale prigioniero del traffico.

Fermandomi guardavo le auto ai miei lati, un po’ per vedere se progredivo rispetto a loro e un po’ per guardare i modelli di auto. In uno di questi ennesimi momenti di stop, mentre frenavo annoiato a 10 all’ora ho girato lo sguardo verso il bellissimo SUV sulla mia destra, davvero ben fatto. Frenavo ma l’auto non si ferma, no problem, pigio con più forza il freno... oddio non si ferma. Pigio ancora più forte ma niente, l’auto non si ferma. A quel punto mi sono svegliato di botto dalla trance in cui ero, con la paura di andare a sbattere sull’auto di fronte a me. Mi sono girato allarmato per misurare la distanza. E lì scopro che non mi stavo muovendo affatto.

 


Traffico



Era successa una particolare sincronia tra la mia frenata e il SUV che, per via di una leggera pendenza del terreno, aveva iniziato a indietreggiare lentamente nel preciso istante in cui io mi fermavo. Era lui che si stava muovendo indietro, non io in avanti, ma la sincronia era stata davvero perfetta creando l’illusione, per un momento, di aver rotto i freni.

Sorridendo allo scampato pericolo ripensavo alla sensazione di impotenza appena vissuta... l’auto che si muoveva totalmente fuori controllo. Che sensazione... prigioniero di un movimento inarrestabile che mi ha fatto pensare alla frase: “fermate il mondo che voglio scendere”, intrappolato e con la consapevolezza che non si può fare, non si può né fermare il mondo né scendere.

Cosa che in sostanza è la vita. Perché, come spiegano i mistici, nemmeno con la morte si esce dalla vita. È un ciclo eterno, inarrestabile, una ruota che gira e da cui non si scende mai.
Mi viene in mente un’amica che anni fa mi raccontava di ricordarsi che da piccola, primi anni di vita, batteva la testa contro il muro ripetendo “oh no, ci son cascata di nuovo” riferendosi all’essere tornata in una nuova vita...

C’è un bellissimo passaggio in Bagliori di un’infanzia dorata in cui Osho, bambino di soli 7 anni, vive la morte del nonno...

«La morte non è la fine, ma si viene trasportati in un altro corpo. Questo è ciò che gli orientali chiamano “la ruota”. Continua a girare e a girare. Sì, può essere fermata, ma il modo per fermarla non è quando si sta morendo.
Questa è una delle lezioni, la più grande, che ho imparato dalla morte di mio nonno. Piangeva, con le lacrime agli occhi, e ci chiedeva di fermare la ruota. Non sapevamo cosa fare. Come fermare la ruota?

La sua ruota era la sua ruota, non era nemmeno visibile a noi. Era la sua coscienza e solo lui poteva farlo. Dal momento che ci chiedeva di fermarla, era ovvio che non poteva farlo da solo, da qui le lacrime e la sua costante insistenza nel chiedercelo ancora e ancora, come se fossimo sordi. Gli abbiamo detto: “Ti abbiamo sentito, nonno, e abbiamo capito. Per favore, fai silenzio”.

In quel momento accadde qualcosa di grande. Non l'ho mai rivelato a nessuno; forse prima di questo istante non era il momento. Gli dicevo: “Per favore, fai silenzio” e lui insisteva: “Ferma la ruota, Raja, mi senti? Ferma la ruota”.

Ripetutamente gli dicevo: “Sì, ti sento. Capisco cosa vuoi dire. Sai che nessuno, a parte te, può fermare la ruota, quindi per favore fai silenzio. Cercherò di aiutarti”.

Mia nonna era stupita. Mi guardò con occhi così grandi e stupiti: cosa stavo dicendo? Come potevo aiutarlo?
Risposi: “Sì. Non essere così stupita. Ho improvvisamente ricordato una delle mie vite passate. Vedendo la sua morte ho ricordato una delle mie morti”. Quella vita e quella morte sono avvenute in Tibet. È l'unico Paese che sa, in modo molto scientifico, come fermare la ruota. Poi ho iniziato a cantare qualcosa.

Né mia nonna poteva capire, né mio nonno morente. E per di più, nemmeno io riuscivo a capire una sola parola di quello che stavo cantando. Solo dopo dodici o tredici anni riuscii a capire cosa fosse. Era il Bardo Thodol, un rituale tibetano.
Quando un uomo muore in Tibet, si ripete un certo mantra. Questo mantra si chiama Bardo. Il mantra dice: “Rilassati, stai in silenzio. Vai nel tuo centro, stai lì; non lasciarlo, qualsiasi cosa accada al corpo. Sii solo un testimone. Lascia che accada, non interferire. Ricorda, ricorda, ricorda che sei solo un testimone; questa è la tua vera natura. Se riesci a morire ricordando, la ruota si ferma”.

Ripetei il Bardo Thodol per mio nonno morente senza nemmeno sapere cosa stessi facendo. Era strano, non solo che lo ripetessi, ma anche che lui diventasse completamente silenzioso ascoltandolo.

Forse non aveva mai sentito una sola parola in tibetano prima di allora ma, pure di fronte alla morte, divenne assolutamente attento e silenzioso. Il Bardo ha funzionato anche se lui non poteva capirlo.

Si rinasce continuamente - in eterno - a meno che non ci si illumini e allora la ruota si ferma». Osho

Hai riconosciuto le parole del mantra cantate da Osho bambino? Sono le stesse che negli ultimi mesi dei suoi discorsi in pubblico ha usato nel guidarci nella parte finale con gibberish e let-go che ancora oggi usiamo alla fine della Meditazione Evening Meeting.
Non c'è bisogno di arrivare in punto di morte per sentircele dire... né, soprattutto, per poterle mettere in pratica. Sono la via concreta per vivere la vita (e infine anche la morte) da uno spazio di meditazione invece che persi, travolti dagli eventi.

E prima di salutarti ti voglio presentare una nuova iniziativa dell’Osho Times, la rubrica “La carta del mese” a cura di Pratiti, La puoi leggere qui.

Arrivederci alla prossima newsletter quindicinale,
Akarmo